domenica 22 settembre 2013

MUTOKE, MOYO!

Quando, a 26 anni, si ha la possibilità di andare in Africa per otto mesi, ed è la prima volta che si accede al Continente, l’immaginazione viaggia in anticipo e costruisce la meta combinando gli elementi a disposizione. E allora ci si può quasi vedere, mesi dopo, in un paradiso terrestre, con gli elefanti vicino casa, le capanne, la foresta, canti e balli tutto il giorno, frutti mai visti e il cielo africano che toglie il respiro ogni volta che guardi in su. E invece si arriva a Tshimbulu. Anzi, prima si atterra a Kinshasa, che rende tutto più drammatico. La città offre il peggio di una metropoli europea, combinato ad un costante senso di insicurezza, odore di gomma bruciata e tantissima polvere che fagocita parte della numerosa popolazione che lavora,o vive, in strada. 24 comuni, 10 milioni di abitanti e una presenza considerevole di stranieri, alcuni membri dell’UN, altri rappresentanti di quel commercio che sta derubando il Congo delle sue più grandi ricchezze. E non parlo solo dei diamanti. Auguro a chiunque passi di lì di incontrare lo spirito e la forza delle persone che ci hanno ospitato, coccolato ed iniziato alla vita africana. E’ ancora vivo, e soprattutto attivo, il desiderio di cambiare le cose, di aggiustare comportamenti, di fornire gli strumenti necessari ad affrontare una vita difficile. Lodevoli, davvero. Ci sono stati momenti intensi, commuoventi e pure belli in compagnia dei bambini di strada o degli ex bambini soldato delle Bendicta, attimi di relax sulle sponde del fiume Congo, e tanti discorsi nel tentativo di cominciare a capire qualcosa di questo immenso Paese. Non demoralizzate alla fine dunque, ma con l’impaziente desiderio di raggiungere la destinazione finale: il Kasai Occidentale, Kananga, Tshimbulu. Il giorno dopo l’arrivo notturno, si mette il naso fuori casa per scoprire che si ci sono le capanne, ma gli animali si risolvono in galline nere e capre, di elefanti insomma neanche l’ombra. La visita in ospedale colpisce lo stomaco quanto basta per farci rimanere senza parole, poco preparate soprattutto alla vista di un bambino, così piccolo,magro e con occhi tanto grandi. Le persone poi ci guardano attentamente,parlano, e noi non riusciamo a capire nemmeno una parola. La casa in compenso è ben al di sopra le nostre aspettative, spaziosa e fornita di acqua calda e corrente praticamente sempre. In più, la presenza di Angela che, non si sa come, riesce a combinare quei quattro alimenti disponibili in manicaretti vari, rende le giornate sicuramente più piacevoli. Katia ci introduce al nostro futuro lavoro e cerca di darci un’idea del passato del Congo, cosicché si scopre la storia coloniale, le lotte e gli interventi esterni più o meno positivi (anche il Che è passato di qua!!) e ci si fa un quadro della fondamentalmente disorganizzata popolazione congolese. Si cominciano anche le visite al centro nutrizionale e al CASC, con le relative perplessità dovute all'impostazione ancora troppo occidentale…com’è pensabile che i bambini stiano senza pannolini? Ci vuole poco per capire che i problemi non si fermano lì…ma ancora meno ad innamorarsi di quelle creaturine. Il CASC poi è un’esplosione di vita, lo spazio da subito ci stupisce per l’organizzazione ferrea e le numerose attività programmate. Domenica si va al mercato. La strada fino a lì ci da l’occasione di sbirciare nella vita quotidiana del villaggio, di farci conoscere un po’ e di lasciarci divertire dai bambini per strada. “Mutoke, moyo!”, (bianche, buongiorno!) e i più corrono verso di noi per stringerci la mano, gli altri ci salutano da lontano. Capita infatti che alcuni bambini non osino avvicinarsi troppo perché hanno paura. Del resto se non stanno buoni, qui si dice loro che viene l’uomo bianco a prenderseli. Punti di vista. Dopo un lungo giro tra le bancarelle, sotto il sole che un po’ prende la testa, si ritorna verso casa cariche di frutta e verdura. E finalmente le capanne le vediamo davvero. Tutto sembra più bello, così vero e naturale che non si vorrebbe stare da nessun’altra parte, finalmente ci sembra di averla trovata l’Africa, la nostra Africa. E si rimane in questo stato di “illuminazione” per un po’. Anche l’ospedale è come se lo vedessimo per la prima volta, non fatto di soli malati ma, e soprattutto, di tanta gente che lavora per loro. Capiamo finalmente che si tratta di una vera ricchezza per il villaggio (e dintorni). A due settimane dall’inizio della nostra permanenza, a me ed Antonietta non rimane che tenere aperti cuore e mente per lasciare che questo posto entri a far parte di noi. Anche quando si deve correre in giro per il prato tentando di riacchiappare un gallo… Maria Monauni

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